In questo solenne rito si intrecciano diversi motivi di gioia: la celebrazione diocesana del cinquantesimo della mia ordinazione sacerdotale, la consacrazione dell’altare della Cattedrale, la festa di San Giovanni Battista.
Si tratta di uno dei tanti momenti importanti che il Signore sta donando in questi mesi alla nostra Chiesa locale, a testimonianza del suo camminare con noi lungo i sentieri della nostra storia.
Ho voluto dare a questo evento un tono familiare, invitando quanti con me sono chiamati a condividere l’onore e la fatica del servizio alla crescita religiosa e umana del nostro territorio: sacerdoti, diaconi, religiosi, sindaci, altre autorità civili e militari, e le varie preziose componenti del nostro laicato che tanta parte hanno nella costruzione della Comunità cristiana, come ha dimostrato la meravigliosa esperienza del primo sinodo diocesano, appena conclusa. Ho evitato di coinvolgere Confratelli ed amici importanti, ecclesiastici e laici, che avrebbero forse dato al nostro convenire un tono di maggiore solennità, ma che probabilmente ci avrebbe distratto dall’essenziale e dalla grazia che la nostra Chiesa locale è chiamata a vivere oggi.
Tanto mi ha suggerito anche la coincidenza del cinquantesimo anniversario della mia ordinazione sacerdotale, che ricorreva lo scorso 30 marzo, con l’annuale celebrazione del Venerdì santo che mi ha fatto concentrare lo sguardo e il cuore su Colui che, appassionandosi e morendo per noi, rivela il vero volto di Dio e ci invita a sentirci piccoli e a prostrarci continuamente a terra per affidarci completamente alla sua misericordia.
Le letture appena proclamate, prese dal proprio della Solennità di San Giovanni Battista, riempiono di prospettive alte la festa del mio giubileo sacerdotale e ne definiscono i motivi di gratitudine e quelli di un doveroso esame di coscienza su come ho risposto alla chiamata del Signore.
La prima lettura, dal Libro del profeta Isaia, mi ricorda innanzitutto che tutto è iniziato da un suo atto d’amore : “Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal seno di mia madre ha pronunciato il mio nome”(Is 49,1). Se guardo a Lui, tutto nella mia vita è grazia e dono. Ma il ricordo del seno materno, mi fa pensare all’amore con cui sono stato atteso, a mia mamma e al mio papà, cui sono stato affidato come dono d’amore del Signore dopo una precedente gravidanza andata male. Oggi penso con riconoscenza alla mia famiglia, all’amore ricevuto ed alla fede semplice, solare e senza fronzoli cui sono stato educato. Penso anche alla mia piccola parrocchia, dove la mia vocazione è sbocciata grazie all’arrivo di un sacerdote generoso, povero, pieno di entusiasmo e di coraggio, D. Callisto Lapalorcia, che mi ha iniziato ad una Chiesa capace di sognare. Oggi guardo con stupore grato a quella piccola realtà di periferia, dove il Signore mi formava ad essere al servizio della Parola – della sua Parola – e a sentirmi protetto nelle tante fatiche e nelle sofferenze, che nella mia vita non sono mancate, ma dalle quali ho imparato ad uscire più forte e più motivato di prima, affidandomi solo a Lui.
Con Lui tutta la mia vita è stata un appassionarmi ed un subire le sconfitte di chi serve quella Parola. Tante volte ho visto naufragare il frutto di immani fatiche, ma sempre ho potuto concludere, come il personaggio del Salmo 117: “Celebrate il Signore perché è buono, eterna è la sua misericordia!” (Sal 117,1).
La seconda lettura ci presenta Giovanni come colui la cui vita è in funzione di un altro: “viene dopo di me uno, al quale non sono degno di slacciare i sandali”(At 13 25). Il Precursore insegna che ognuno che è chiamato dal seno materno ad essere, anche nel Sacerdozio ministeriale, “spada affilata” e “freccia appuntita” non può considerarsi mai punto di arrivo, ma uno che vive costantemente in funzione di un Altro più grande, Gesù. La figura di Giovanni il Battezzatore mi fa ricordare alcuni sacerdoti che ho avuto la fortuna di incontrare: Mons. Plinio Pascoli, il rettore del Seminario Romano Maggiore, poi Vescovo Ausiliare di Roma, che mi ha insegnato che essere prete è cosa molto seria, che esige una donazione totale e feriale, e il mio parroco di San Luca al Prenestino, in Roma, Mons. Alessandro Agostini, che per diversi anni ho affiancato come giovane sacerdote. Lui sì, era un uomo in funzione degli altri e dell’Altro: nei rapporti con le persone, con i soldi, con il potere. Da lui ho imparato a vincere la tentazione che fu della madre dei Figli di Zebedeo (Mt
20,20): lui non chiedeva posti d’onore, di cui era anche degno, ma si preoccupava di servire gli altri perché trovassero il proprio posto nella vita, come nel cuore di Dio. Era un prete del “dopo di Lui”. Quante volte l’ho pensato quando ho incontrato preti a caccia dei primi posti, quante volte la sua testimonianza mi ha liberato dalla tentazione di primeggiare al posto del Signore!
Il racconto della Nascita del Battista è scritto da San Luca in parallelo con quello della Nascita di Gesù, ed afferma la superiorità del Salvatore rispetto al Precursore. Tuttavia, questo testo mi ha sempre colpito per il rapporto che stabilisce tra l’obbedienza alla volontà di Dio da parte di Zaccaria e il dono della Parola. In esso ho colto un collegamento forte tra l’obbedire al Signore e la capacità di annunciare la Parola, che mi ha fatto sentire saporite ed efficaci le parole di certi preti semplici e generosi conosciuti nel tempo.
Queste belle figure sacerdotali mi hanno aiutato a lasciarmi educare dalla gente e a mettermi in ascolto della loro vita, prima di annunciare il Vangelo. Tra i miei “educatori” un grazie particolare voglio riservarlo ai bambini e alle giovani famiglie, di San Luca ieri e di Alife oggi, maestri preziosi nel mio servizio alla Parola, e a quanti, giovani e adulti, nella Diocesi di Alife-Caiazzo, come a Roma, mi hanno parlato della loro vita, aiutandomi a non sentirmi un possessore della verità, ma a mettermi al loro fianco per far fiorire loro esistenza con la forza di un Vangelo vissuto prima che proclamato.
Guardando alla mia esistenza, spesso mi domando come ho corrisposto, come corrispondo al dono del Sacerdozio…. Stasera sono qui non solo per ringraziare con voi il Signore, ma anche per chiedervi di perdonarmi e di aiutarmi a chiedere perdono per tutte le mie infedeltà.
Per dare alla ricorrenza del mio giubileo sacerdotale un sapore meno celebrativo e mondano e più evangelico, ho voluto legarla alla consacrazione dell’Altare della Cattedrale: un evento che esprime la nostra identità di Chiesa, il senso del ministero sacerdotale che il Signore mi ha affidato ed anche la nostra comunione con la Chiesa universale, alle cui norme emanate dal Concilio Vaticano II, dopo 53 anni, con il nuovo altare, intendiamo adeguarci.
Come ci ricorda anche il Rito della consacrazione, costruire un altare, nell’antico testamento, significa piantare una pietra dedicandola a Dio perché sia memoriale di alleanza, suo riferimento sulla terra e testimonianza dell’affidamento dell’uomo alla sua volontà. Nelle logica neotestamentaria, l’altare rappresenta soprattutto Cristo, pietra angolare dell’edificio spirituale della Chiesa, fonte imprescindibile
della unità della Comunità cristiana, mensa dei fratelli, su cui viene celebrato quel Mistero grande, il Sacrificio eucaristico che, oltre che atto di culto per eccellenza, rappresenta quello che il cristiano e la Chiesa vogliono essere: un dono appassionato che fa crescere in umanità il mondo.
Come è stato scritto lodevolmente nel fascicoletto che stasera verrà distribuito, la realizzazione dell’altare è giunta dopo più di un anno di riflessioni e di trattative tendenti a conservare lo stile della nostra Cattedrale e ad adeguarla finalmente alle norme liturgiche vigenti. Il risultato che ne è emerso pare soddisfacente. Il nuovo altare infatti è funzionale, discreto, rispettoso del contesto, ma anche espressione della dignità e della solidità che tale importante manufatto deve possedere, soprattutto in una Cattedrale. Anche qui, come nello stile della nostra Diocesi di questi ultimi anni, più che nella logica dello stupire, si è voluto operare secondo la logica del “piantare semi”.
Che senso, allora, ha questa nuova “pietra” piantata nel cuore della nostra Diocesi, in mezzo alla Cattedrale?
Essa innanzitutto ci invita a mettere Cristo al cuore del nostro essere e del nostro operare: a fare di Lui l’unica grande passione della nostra Chiesa di Alife-Caiazzo; a sentirci continuamente, come il Battista “dopo di Lui” e in funzione di Lui. Ad operare sempre più per la costruzione in terra di una realtà che assomiglia al NOI dell’unità trinitaria e a vergognarci di ogni moto di divisione e di vaneggiamento individualistico, che può sfiorarci come vescovo, sacerdoti e fedeli laici.
Mi veniva da pensare che in questi anni sono avvenuti alcuni fatti, talora imprevisti, che ci aiutano a leggere la storia di questa Chiesa e a comprendere in quale direzione deve camminare: la realizzazione in alcune chiese degli altari fissi (fra poco anche nella concattedrale di Caiazzo) e il consolidamento delle fondazioni inesistenti dell’episcopio di Piedimonte, dopo il terremoto del 2013. Questi eventi ci ricordano che la nostra Chiesa locale deve passare sempre più dalla sensazione di essere una realtà fluttuante e instabile, alla consapevolezza della sua solidità, che la porta ad essere una squadra compatta, unita organicamente intorno al proprio Vescovo e soprattutto intorno al Signore. La storia degli ultimi 50 anni spesso ci ha portato nella direzione pericolosa della “fluttualità”, dell’approssimazione e di una certa insofferenza verso la comunione: a tanto forse ci “educavano” anche alcuni importanti simboli liturgici. Consacrando il nuovo altare di pietra della Cattedrale, chiediamo al Signore di aiutarci a superare una certa diffusa mentalità sismico-ecclesiale senza norme e obiettivi chiari, per troppo tempo vigente tra noi, per costruire sempre più la nostra Chiesa, come un edificio solido, fondato sulla pietra
angolare che è Cristo e in piena e leale sintonia con la Chiesa universale, il suo Magistero e le sue regole.
Il nuovo altare, che molti presbiteri della diocesi hanno voluto donare al Vescovo in occasione del suo giubileo sacerdotale, è un bel segno di speranza: dice la comune volontà di essere costruttori sinceri e sereni della nostra Chiesa locale, impegnati nella fedeltà ai grandi segni di amore che il Signore ci ha donato in questi anni: il Sinodo, la Visita pastorale, le Ordinazioni presbiterali. Tale gesto esprime anche la convinzione che il vescovo non è un individuo che temporaneamente “regge” una Diocesi, ma il dono dell’Apostolo che, nell’avvicendarsi delle persone, costruisce nella Chiesa quella comunione di cui l’altare è segno pregnante. Pertanto, il dono dei sacerdoti non è un omaggio affettuoso o servile ad una persona che passa, ma al vescovo segno e garante dell’unità della Chiesa locale.
Consacriamo questo nuovo altare sotto lo sguardo di Maria: dal grande affresco del Bocchetti, che domina la nostra Cattedrale, ci fa compagnia in ogni tappa del cammino di questa Chiesa. Chiediamo a Lei di mostrarsi Madre di misericordia verso questa porzione del Popolo di Dio che la venera nelle centinaia di chiese, cappelle ed edicole mariane sparse nel territorio. Ella ci aiuti ad innamorarci sempre più di Lei e ad assumerla come modello e madre della Chiesa che vogliamo essere.